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venerdì 17 marzo 2017

UN MARE DI PLASTICA NEGLI OCEANI

Si possono muovere molte critiche politiche a Greenpeace e ad associazioni analoghe, ma spesso, come in questo caso, bisogna leggere i loro studi per interpretarli poi politicamente, cosa che loro non fanno: ad esempio qua indicano i marchi ma non ci spiegano che ciò accade non per cattiveria o scarsa coscienza ambientale (cosa che riguarda i comportamenti individuali o di gruppo, non certo l'accumulazione che segue logiche diverse), ma derivano dalla ricerca del valore al massimo livello possibile, unico modo di fare soldi in un sistema a capitalismo oligopolista in cui lo Stato, o se si vuole il settore pubblico, non è più regolatore nemmeno minimo del salario e del mercato.
Lasciare la grande produzione, soprattutto ove questa usi materiali o lavorazioni nocive (cioè quasi sempre), alla completa deregulation, così come lasciare al privato il controllo dell'energia e delle materie prime (che richiederebbero per ovvi motivi una pianificazione che solo il pubblico può dare, visto che il privato, se non esponenzializza il valore, viene mangiato da altri privati) sono il segno più evidente di un modello di sviluppo folle, dentro il quale parlare di diritti o miglioramenti risulta un'impresa al limite dell'impossibile.


da  https://ilmanifesto.it/un-mare-di-plastica-negli-oceani/

Ecologia. Secondo uno studio condotto da Greenpeace su cinque multinazionali del settore bibite analcoliche solo il 6,6% delle bottigliette è realizzato con plastica riciclata. "Milioni di tonnellate ogni anno finiscono nell'oceano", accusa l'associazione ambientalista


Greenpeace ha condotto una ricerca su cinque multinazionali del settore bibite analcoliche, di quelle che investono milioni per ripulirsi l’immagine, e ha scoperto che solo il 6,6% delle bottigliette è realizzato con plastica riciclata. PepsiCo, Suntory, Danone, Dr Pepper Snapple e Nestlé sono gruppi che insieme vendono più di due milioni di tonnellate di bottiglie mono uso di plastica. Un’altra multinazionale di un certo rilievo non ha voluto rivelare la quantità di plastica che utilizza, Coca Cola.
“Milioni di tonnellate di plastica finiscono nell’oceano ogni anno, danneggiando la fauna marina e diffondendo sostanze chimiche tossiche che impiegano secoli a degradarsi”, commenta l’associazione ambientalista. Che ha l’ardire di fare una proposta che in teoria non si potrebbe rifiutare, chiedere alle aziende di “affrontare la questione dell’inquinamento della plastica nei mari, per esempio producendo più bottiglie riciclabili al 100% e impegnarsi ad eliminare l’uso di plastica usa e getta”. Le aziende hanno replicato dicendo di aver risolto in parte il problema utilizzando “bioplastica” senza petrolio e dunque più riciclabile.
Il fatto è che il business della plastica si regge in gran parte sulla produzione del “mono uso”: circa il 40% della plastica prodotta in Europa è destinata agli imballaggi. E’ la follia del modello lineare di produzione, una volta pronto il prodotto viene immediatamente buttato nella spazzatura. La soluzione, su cui anche l’Unione europea finalmente ha aperto una discussione, si chiama “economia circolare”: chiudere il cerchio significa progettare prodotti pensando al loro riutilizzo per produrre meno rifiuti.
Ci sono in cantiere diverse direttive europee (proprio ieri l’Europarlamento si è dato come obiettivo il 70% di rifiuti riciclati entro il 2030) che in seguito andranno tradotte in legislazioni nazionali. Il packaging è il simbolo dello spreco di un modello di sviluppo ed è un problema per gli ecosistemi di tutto il mondo. I fabbricanti di involucri (e i governi che non disincentivano l’utilizzo di plastica inutile) sono i principali responsabili ma anche i consumatori distratti ci mettono del loro: ogni volta che si va a fare la spesa bisognerebbe sforzarsi di non portare a casa anche “il problema”, magari scegliendo materiali riciclabili.

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